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“I posteri dovranno bollare a fuoco queste vergogne”

1916, marzo 12 (domenica)

Piove continuamente: tutta la notte, sotto il cunicolo coperto dalle tavole che sostengono la mia barella, il solito sciabordio dell’acqua dal colore di ruggine, melmosa e bavosa che viene giù per le pendici del San Michele e si infossa verso la imboccatura del nostro tunnel. Si direbbe che in quell’acqua ci fossero mischiati il sangue, la marcia, la putredine degli innumerevoli cadaveri rimasti lassù sulla montagna orrida di morte! E dire che questa non è forse un’impressione meramente soggettiva!

1916, maggio 19 (venerdì)

Alle 4.10 di mattina una bomba di aeroplano cade nella casa vicina dove alloggiano gli allievi ufficiali: io ero sveglio e ne ho sentito il sibilo precursore: la sentivo venire giù così vicina che mi sono messa l’anima nelle mani di Dio. Ecco infatti lo scoppio, un rovinio di macerie che rimbalzano fin sopra la veranda della mia finestra: poi subito grida invocanti aiuto. Mi alzo, mi vesto, corro: la casa dove sono alloggiati gli allievi ufficiali è sfondata: ecco dal portone di tra la polvere delle macerie venire fuori le prime barelle con i feriti, con i morti: mi reco al posto di medicazione, dopo aver preso la stola e l’olio santo: al primo posto lascio don Venturini il quale è corso subito anch’egli. Io vado al secondo posto: vengono i feriti con ferite orribili, i morti schiacciati, sfracellati: faccio allineare i morti (sei) da una parte del cortile e vado attorno ai feriti alcuni dei quali emettono grida strazianti: ai più gravi do l’assoluzione (…). Alle 8 di sera sette casse sono nella piccola chiesa di Moraro: vi sono stati gettati sopra fiori e ghirlande (…). Un cordoglio immenso mi ha tenuto l’anima per tutta la giornata che è stata quieta: l’areoplano austriaco mentre io ritornavo dal posto di medicazione, ha rifatto capolino sopra Moraro. Per la prima volta dal mio cuore è balzato fuori incoercibile un impeto di sdegno contro l’assassinio barbarico: è vero, è la guerra: ma se si fa con questi sistemi rinunciamo a essere popoli civili: i nostri posteri dovranno bollare a fuoco codeste vergogne dell’umanità in pieno secolo XX.

1918, novembre 4 (lunedì)

Ho celebrato in cappella. Fin da ieri sera, il lieto scampanio che si udiva da Venezia e quello di Treviso annunziava la notizia dell’entrata delle nostre truppe a Trento e Trieste! Stamani da tutti i campanili del Veneto le campane rinnovavano il canto della vittoria; i soldati, i cittadini passavano come una fantasmagoria di gioia e di esultanza, trasfigurati, palpitanti, eppure senza parole: noi stessi non avevamo, non abbiamo parole: la nostra gioia è muta: forse proromperà più tardi dai nostri cuori: sembra che anche la gioia produca lo sbigottimento. È quello che succede a noi! Siamo sbigottiti nella gioia, muti e quasi insensibili… Dio sia benedetto! Che non manchi a noi, che non manchi all’Italia la saggezza che è tanto necessaria nella vittoria quanto lo era durante la guerra che può dirsi ormai finita!

Stralci dal volume “Beniamino Ubaldi - Diario della Grande guerra”, a cura di Fabrizio Cece e Anna Radicchi, ed. Fotolibri, Gubbio 2018

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