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In tre mesi, tutto e il contrario di tutto. Senza pudore

Contraddizioni, paradossi, autosmentite, fughe in avanti e marce indietro hanno caratterizzato i tre mesi ormai passati dalle elezioni del 4 marzo, che hanno prodotto (come lasciava presagire la legge elettorale preparata per ‘non far vincere nessuno’) lo stallo politico, e la conseguente crisi istituzionale di questi giorni, forse la più grave del dopoguerra. La prima, paradossale contraddizione è l’essersi presentati il giorno dopo il voto come vincitori, sapendo che non c’era nessun vero vincitore: lo hanno fatto i cinquestelle (ma 33 per cento non è 51), l’ha fatto l’intero centrodestra (chiedendo addirittura al Capo dello Stato di poter cercare in Parlamento la fiducia senza avere i numeri necessari) e l’ha fatto la Lega, guardando però più alla possibilità di stravincere le elezioni prossime venture che alla volontà reale di governare il Paese. Poi c’è stata la politica dei ‘due forni’ attuata dal leader pentastellato Luigi Di Maio: paradossale anch’essa, perché non c’è logica nel dire che per governare è indifferente se ti allei con il Pd o con la Lega. Una fuga in avanti, quindi, che è diventata un ritorno al forno leghista quando - dopo l’intervista di Renzi da Fazio, anch’essa paradossale visto che l’attuale senatore di Scandicci è ‘soltanto’ un ex segretario - il Pd si è sfilato da un’eventuale maggioranza insieme a M5s.

E lo ha fatto sulla base di un ragionamento paradossale: ‘Gli elettori ci hanno dato il 18 per cento [ la Lega, vincitrice, è al 17 ...], quindi ci hanno mandato all’opposizione’. In realtà, quel 18 per cento ha votato Pd nella speranza che governasse. Una delle punte più alte dei paradossi e delle contraddizioni è stata quando Di Maio e Salvini si sono accorti che nessuno dei due avrebbe potuto fare il premier, aspirando a farlo entrambi; ed è stato indicato il professore e avvocato Giuseppe Conte.

Un tecnico, espressione di una di quelle categorie che grillini e leghisti, in tempi passati, avevano messo al bando per la gestione della politica in Italia. “Il premier non ha la priorità, quella ce l’ha il contratto di governo”, spiegavano dai cinquestelle. Poi, il culmine dei paradossi: ripetere ai cronisti che affollano le piazze romane del potere - come ha fatto Di Maio in più occasioni - che i ministri “li scelgono il premier incaricato e Mattarella”, per poi attaccare frontalmente il Presidente della Repubblica, arrivando a chiederne la messa in stato di accusa, per il fatto di aver opposto il veto (una prerogativa costituzionale) al candidato ministro dell’Economia, l’euro-critico Paolo Savona (un altro tecnico, e della vecchia nomenklatura ...). Ma come? Non era ‘importante’ un Presidente del Consiglio, e poi è diventato motivo di scontro un ministro? Anche da questo insieme di paradossi e contraddizioni nasce la crisi politico-istituzionale di questi giorni. Ora tocca a Carlo Cottarelli, grande esperto di tagli alla spesa pubblica (alle sue teorie si ispira la parte del programma grillino su questo tema) traghettare il Paese a nuove elezioni. Fossi in lui, mi presenterei in Parlamento - dove si sa già che non avrà la fiducia - proponendo come primo punto del programma del suo Governo ‘neutrale’ il taglio delle indennità dei parlamentari.

È nel programma di Lega e cinquestelle: vediamo se voteranno contro! Sarebbe un paradosso.

Daris Giancarlini

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