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Prima e dopo Cristo, il modo spiazzante in cui Dio risponde al grido dell’umanità

Oltre 1.200 persone hanno visitato la mostra fotografica “C’è qualcuno che ascolta il mio grido?

Giobbe e l’enigma della sofferenza”, organizzata dalla Consulta delle aggregazioni laicali della diocesi di Perugia, e che si è conclusa domenica 31 marzo presso il Cerp - Centro espositivo della Rocca paolina. La chiave di lettura della mostra è stata approfondita in un incontro con il curatore, prof. Ignacio Carbajosa, docente di Antico Testamento all’Università San Damaso di Madrid, del cui intervento presentiamo qui una sintesi mentre sul nostro sito pubblichiamo un resoconto del dialogo del relatore con il pubblico (www.lavoce.it/giobbedialogo).

Giobbe è l’uomo giusto che Dio permette a Satana di privare di ricchezze, figli e salute; giunto al colmo del suo dolore, rivolge a Dio con un grido accorato: perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore? È la stessa domanda dell’uomo di oggi davanti al dolore innocente, al limite, alla morte. Un grido che è figlio della cultura biblica e cristiana. Ma l’uomo di oggi, che non sperimenta più Dio come una presenza vicina, può trovare un interlocutore a cui porre questa domanda? E il grido stesso, culmine della ragione umana che è rapporto con l’essere, non rischia forse di essere ridotto e schiacciato, fino ad essere addirittura privato di senso?

Giobbe, nell’ingaggiare con Dio una lotta, lo riconosce sempre come Dio e come creatore buono.

Nel cuore dell’Europa moderna, invece, sulla scia del terribile terremoto di Lisbona (1755), il ‘perché’ indirizzato a Dio è diventato una sfida alla bontà e alla stessa esistenza del creatore.

La fiducia kantiana nella moralità umana e in una fede razionale universale non ha retto all’urto delle tragedie del Novecento, all’orrore di Auschwitz. La Bibbia ci offre le pagine sorprendenti in cui Giobbe, creatura, intenta una causa nei confronti del Creatore: emerge tutta la dignità della ragione umana, che non può arrendersi né accontentarsi di spiegazioni insufficienti e riduttive. Davanti al grido, infatti, la tentazione è quella di giustificare Dio per evitare che l’immagine che abbiamo di lui entri in crisi. È questo, nel libro, il ruolo degli amici di Giobbe: si presentano come avvocati difensori di Dio, ma in realtà lo rinchiudono all’interno della dottrina della retribuzione che dovrebbe spiegare tutto. Davanti al grido della sua creatura, Dio decide di comparire in giudizio: accoglie la sfida e invita Giobbe a contesa. Non si siede però sul banco degli accusati, bensì sul banco di scuola e, con profonda ironia, comincia a porre a Giobbe una lunga serie di domande.

Ssgrana tutte le meraviglie e i misteri della creazione, domandando a Giobbe quale ne sia l’origine: “Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura?… Certo, tu lo sai, perché allora eri nato e il numero dei tuoi giorni è assai grande!”. Dio sembra non rispondere alla domanda di Giobbe, ma gli parla della propria onnipotenza e lo spinge ad alzare gli occhi sulla sorprendente e misteriosa inesplicabilità della creazione.

Le domande di Dio rivelano cose che noi, figli del positivismo, diamo per scontate. Davanti alla realtà, infatti, la nostra ragione non registra un mero positum : se siamo attenti e leali, la sorprendiamo come un datum . La realtà è un dato che suscita in noi meraviglia, è cioè un donum . “Chi mette al mondo le gocce della rugiada? Dal seno di chi è uscito il ghiaccio, e la brina del cielo, chi l’ha generata?” ( Gb 38,28-29). In questo istante c’è Uno che mi fa, che mi sostiene nell’essere, che fa la realtà e la mantiene. Rendersi conto del reale porta l’uomo sulla soglia del Tu. Il nostro essere è fondamentalmente e radicalmente un rapporto: la creatura che accetta che Dio l’abbia creata, l’accettarsi in quanto creati, proprio come creati, è la prima e più fondamentale forma di amicizia.

Così, in un Tu si dispiega l’io, incontenibile, indistruttibile, immortale (L. Giussani). E Giobbe si sente corretto e soddisfatto. La domanda non si è esaurita, la ferita è ancora aperta: ma ora trasforma nel pianto di un bambino davanti a sua madre.

Giobbe scende dalla sua cattedra e prende posto nel banco di scuola. Ora è lui che rivolge le sue domande a Dio.

Il libro finisce qui. Possiamo immaginare le domande di Giobbe, ma non le risposte divine. Siamo di fronte a un libro aperto tutto il Vecchio Testamento è un libro aperto - in cerca di un compimento. Ma in che senso l’intervento divino risponde alle domande di Giobbe? La dinamica del dolore aveva portato Giobbe a ripiegarsi su se stesso e la potenza della ragione lo aveva elevato, sordo a tutto quello che lo circondava, all’altezza di Dio.

Dio gli fa alzare gli occhi perché possa “rendersi conto” di quello che lo circonda: la sua creazione.

E Giobbe cede, si lascia commuovere, si sente sopraffatto, dominato, da una Presenza che sostiene la presenza delle cose: “Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto” (Gb 42,5). La nostra tradizione occidentale, che si è costruita sul Nuovo Testamento, continua a domandare, levando la voce di fronte al male e all’ingiustizia, ma non lo può fare escludendo quel grido unico, lancinante, di un nuovo Giobbe, inchiodato a una croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Tra la redazione del libro di Giobbe e i nostri giorni sta l’annuncio della sorprendente pretesa cristiana: Dio si è fatto uomo ed è entrato nella storia. Gesù di Nazareth non ha portato una ‘soluzione’ teorica per il problema della sofferenza.

Se ne è fatto carico, morendo su una croce. La teodicea moderna deve affrontare questo paradosso che la storia ci ha lasciato in eredità: un avvenimento , inquadrato nel tempo e nello spazio (passione, morte e risurrezione di Gesù di Nazareth), e non una riflessione, si presenta allora come chiave per comprendere il mistero della sofferenza e del male.

Alessandra di Pilla

Tra il libro di Giobbe e i nostri giorni sta l’annuncio della sorprendente pretesa cristiana: Dio si è fatto uomo ed è entrato nella storia.

Gesù di Nazareth tuttavia non ha portato una ‘soluzione teorica’ al mistero della sofferenza.

Se ne è fatto carico

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