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Cosa la sedazione non è

Ancora una volta, lasciate sedimentare le agitate acque del “clamore a tutti i costi”, legato ad episodi di cronaca (in questo caso, il video-testamento della signora Marina Ripa di Meana, pochi giorni prima della sua morte), torniamo a ragionare con pacatezza sui fatti concreti e sui termini usati per descriverli.

Questa volta, il tentativo di strumentalizzazione si è concentrato su un delicato atto medico: la sedazione palliativa profonda continua (Sppc). Nel suo videotestamento, Marina Ripa di Meana, affetta da 16 anni da una grave forma tumorale e ormai giunta alle ultime fasi della sua malattia, dichiarava di aver pensato ad attuare il suicidio assistito in Svizzera (essendo in Italia un reato), ma informata – pur tardivamente - della possibilità di ricorrere alla Sppc, aveva deciso di rinunciare al suo mesto viaggio e di sottoporsi a essa. Quindi valutava la disponibilità di questo presidio palliativo come una conquista di civiltà, ribattezzandola (insieme all’Associazione Luca Coscioni) “la via italiana” per morire con dignità e senza inutili sofferenze. “Fate sapere a tutti di questa possibilità”, l’ultima accorata raccomandazione della signora Ripa di Meana.

In un certo senso, vorremmo raccogliere questo suo invito, preoccupandoci però di contribuire perchè alla gente arrivi un’informazione completa e corretta, senza “ammiccanti” e ambigui sottintesi. Occorre infatti intendersi bene quando si afferma che la Sppc è un buono strumento per morire con dignità e senza inutili sofferenze. La stessa cosa, di fatto, viene affermata con enfasi dell’eutanasia/ suicidio assistito da parte dei suoi sostenitori!

In realtà, stiamo parlando di due azioni radicalmente differenti tra loro e nessuno, che sia animato da onestà intellettuale, dati scientifici alla mano, potrebbe pensare di metterle sullo stesso piano. Si tratterebbe di una vera e propria forzatura, spiegabile solo con altre finalità, del tutto estranee all’agire medico.

Del resto, a chiarire bene questa netta differenza hanno provveduto - già qualche anno fa - autorevoli voci. Anzitutto quella della Società italiana cure palliative (Sicp), che nell’ottobre 2007 ha pubblicato il documento Raccomandazioni della Sicp sulla Sedazione terminale / Sedazione palliativa .

In quelle pagine, i medici palliativisti spiegano bene che per Sppc deve intendersi “la riduzione intenzionale della vigilanza con mezzi farmacologici, fino alla perdita di coscienza, allo scopo di ridurre o abolire la percezione di un sintomo, altrimenti intollerabile per il paziente, nonostante siano stati messi in opera i mezzi più adeguati per il controllo del sintomo, che risulta, quindi, refrattario”.

Di prassi, la Sppc viene attuata mediante la somministrazione di sostanze sedative (prevalentemente benzodiazepine), e non di oppioidi (es. morfina). Inoltre, il documento della Sicp precisa che, per iniziare la Sppc, “la refrattarietà del sintomo deve essere presente nel periodo che inizia quando l’aspettativa di vita del malato viene giudicata compresa tra poche ore e pochi giorni secondo la valutazione del medico, d’intesa con l’équipe curante”.

La Sppc, dunque, è una procedura terapeutica che appartiene alle cure palliative, da praticare - se appropriata clinicamente nelle fasi finali della vita. Pertanto, la sedazione palliativa profonda continua si distingue nettamente dall’eutanasia / suicidio assistito. Dunque, con ogni evidenza, possiamo concludere che, laddove indicata clinicamente, la Sppc davvero può rappresentare un valido – ed eticamente corretto – presidio di medicina palliativa per alleviare le sofferenze (gravi sintomi refrattari) del paziente nelle ultime fasi della sua vita. Ma in nessun modo essa può essere interpretata come “la via italiana” all’eutanasia, che invece è e resta una scelta di morte, iniqua e illegale.

Maurizio Calipari

La Sppc rappresenta una valida - ed eticamente corretta medicina palliativa per alleviare le sofferenze del paziente nelle ultime fasi della vita

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